Atterriamo a Dar Es Salaam.
Un porto di mare che affaccia sull’oceano Indiano in Tanzania.
Il caos non è frenetico, ma piuttosto indolente, disordinato, una moltitudine polverosa, gas neri di scarico.
E’ una città dove gli Europei se ne stanno al porto, senza accostarsi troppo per paura di lebbra, malaria, aids.
Il sabato mattina c’è il mercato del pesce:
lì si vende, lì si cucina, lì si consuma.
Odore di affumicato , un gran da fare e un gran vociare.
Nei pentoloni bollono fagioli e il pesce appena fritto viene servito bollente avvolto in carta di giornale.
Fra gli alberi spuntano piccoli villaggi con case di fango e tetti di paglia.
L’interno della casa è un buco nero, meglio stare fuori all’aria, a contatto con gli altri a formare un cerchio di gioco.
Una ragazzina percorre 10 Km a piedi per raggiungere la scuola.
Nei campi cumuli di termitai che i ragazzi all’ora della merenda rompono con una pietra per farne uscire formiche bianche che assaporano, dolci come zucchero.
Qualcuno per fame mastica e sugge la linfa dolciastra della canna mordendo la corteccia con i denti.
Il caldo d’estate è soffocante e
.. l’acqua parla di vita.
Non c’è vita senza acqua.
Acqua che nutre.
Acqua dei mari, dei fiumi,dei laghi, della pioggia.
Acqua fresca ,limpida, acqua che disseta.
Acqua che fluisce con la vita come le emozioni.
Acqua come inizio di ogni cosa, come il ritmo di un tamburo, come la sorgente di un fiume.
Acqua che ci ricorda i nostri miti e tutte le storie di dolore e di piacere, il mondo della fiducia e dell’innocenza.
Noi siamo fatti di acqua.
Acqua che lava e purifica ogni cosa.
L’acqua può anche travolgere,inondare e distruggere,proprio come i sentimenti (S. Saudino)
“Qui la notte è subito notte scura e in men che non si dica si sprofonda nel suo cuore più nero.
Il buio crea una separazione che rafforza il bisogno di stare insieme , i bambini non vanno mai a dormire prima dei grandi.
Il sonno è una contrada dove ci si addentra tutti insieme”. (Da “Ebano” di Ryszard Kapuscinski)
Gruppi di Masai,antichi pastori sradicati dalle montagne dai colonizzatori, si spostano erranti.
Sono alti, eleganti, fieri, statuari.
Mostrano gioielli che spiccano sulla pelle lucida, scura e muscolosa. I loro volti sono come scolpiti nell’ebano.
Cieli stellati, albe umide e nebbiose.
Tramonti infuocati.
In primo piano qualche baobab millenario.
Hanno tronco forte e rami come radici.
Parlano di millenni di storia, di credenze e di popoli.
Percorriamo una lunga strada polverosa per arrivare sull’altopiano di Pomerini a duemila metri.
Qui l’aria è frizzante, limpida e profumata.
La cucina è a legna e si preparano gli alimenti seduti a terra: si prepara il pollo, lo si squarta con la stessa veemenza con cui si taglia la legna.
Le pentole bollenti si toccano con le mani.
Il fuoco non fa paura ma è il migliore alleato di vita.
Le donne hanno un’antica forza fisica, grande semplicità e creatività.
Alcune lavorano steli di giunco colorati: partono la mattina per raccoglierli nei campi percorrendo molti chilometri a piedi e con i fili intrecciano i loro cestini.
Preparano la creta e la lavorano scavandola con le dita dall’interno per creare grossi pentoloni da usare in cucina o vasi decorati da vendere.
Entriamo nei villaggi adottati da Tulime.
L’accoglienza è allo stesso tempo rumorosa ma silenziosa.
Il silenzio del disagio e il rumore della riconoscenza.
Una moltitudine di bambini come un fiume di vita ci viene incontro a piedi nudi.
La maggior parte sono orfani, negli occhi c’è paura, sofferenza, mista alla gioia di incontrarci.
Sembrano il fiore che sboccia dalla terra rossa.
Risuonano tamburi e suoni ancestrali.
Emozioni ed energie che si scambiano.
Cori con voci risonanti, acute, forti di petto,
di chi si sa esprimere con potenza e vitalità.
Luna che sorge come un sole sbiadito in un cielo limpido, stellato, a perdita d’occhio.
L’alternarsi di sole e luna è l’unica fonte di luce naturale.
Quando è buio e la luna è argentea, la giornata è finita.
L’asilo è un piccolo edificio color pastello, affollato di occhi scuri penetranti e di bambini mocciosi.
I più piccoli arrivano ognuno con un bastoncino di legno che servirà ad accendere il fuoco a mezzogiorno per cucinare l’unico pasto della giornata a base di latte zucchero e mais.
Si incamminano poi a piedi nudi per tornare a casa ognuno con una tanica d’acqua riempita nella scuola.
I più fortunati hanno scarpe da ginnastica ricavate spesso da copertoni di gomma e tagliate alla punta per permettere al piede di crescere. I piedi nudi sono, ispessiti, spaccati, colore della terra rossa che li avvolge come scarpe, le unghie sono mangiate e consumate e abitate spesso dalla pulce perforante che si moltiplica nella terra e sotto alla pelle. Molti ci seguono, si abbarbicano a noi, sono curiosi, ci toccano la pelle, i nostri capelli lisci. Il pannolino non esiste e qualche volta dopo averli presi in braccio ho sentito l’umidità della loro pipì.
Tutto sembra superfluo e fuori misura e troppo dissonante rispetto a quei corpi forti, essenziali che portano i segni di insulti della storia.
In ognuno di loro c’è una sorpresa per noi e la loro accoglienza ci restituisce un senso di appartenenza a quel villaggio.
La malaria, l’aids e la morte per la maggior parte di loro sono malefizi mandati dagli spiriti maligni. Raggiungere l’ospedale è troppo costoso e lontano.
Qui in Europa la salute è malata, lì in Africa la morte, sempre in agguato, non da spazio alla malattia e la vita è una fatica sopportata con serenità e resistenza.
Pausa di riflessione sul lago Malawi nella foresta pluviale.
Lo scenario del lago si apre come un grande mare, incorniciato dai monti Livingstone. Sulla spiaggia sassosa ci sono teli consumati dal sole dove si fanno essiccare semi di cacao, mandjoka triturata e reimpastata e piccoli pesci di nome “matemba”. Qui vivono con la pesca famiglie fiere della loro ricchezza e semplicità. Il pesce lo pescano dalle loro canoe scavate in un unico tronco di mango. Per costruire una canoa ci vogliono le braccia di un uomo che per un mese con mezzi di fortuna scava il legno dall’interno del tronco e crea così una concavità.
Il remo è unico , lungo e appuntito come una lancia che si infigge nella sabbia e fende l’acqua del lago.
È un rito aspettare le canoe che arrivano dal villaggio di fronte trabordanti di pentole di terracotta.
Le canoe cosi appesantite si lanciano puntando il remo sul letto del lago e, slittando sull’acqua, sono acchiappate al volo sulla spiaggia.
Reti colorate viola si adagiano su sassi bianchi e nella pancia di qualche canoa c’è una marea di piccoli pesci da vendere al primo passante.
Corpi neri come le canoe di mango, si stagliano e scivolano sull’acqua blu trasparente. Seduta sulla prua una immagine scura, forte con pelle lucida imperlata di sudore, si muove in equilibrio alternando la remata ora a destra ora a sinistra. Passeggiando nella foresta pluviale a ridosso del lago. Incontro un’ Africa lussureggiante dal clima umido tropicale dove le piante sbocciano e si moltiplicano senza sosta. La zona è malarica e malsana.
Banani giganteschi con abbarbicati caschi di piccoli frutti verdi. Papiri e giganteschi alberi di mango.
Immersi in un odore di frutta marcia, di merda secca e di un senso dolciastro di canna da zucchero ci avviamo all’interno del villaggio nella palude per un acquisto di terracotte in una magica atmosfera.
Torniamo inseguiti da nuvole di zanzare e all’improvviso ci troviamo in un buio profondo illuminati solo dalle stelle a guadare un fiume a piedi nudi , per tornare a casa.